PREMESSA
Daniela Zini
“Io
vglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi a me solo,
non alle nozze della figlia o alla notte con l’amante o alle
insidie del nemico o al processo o alla casa o al podere o al
tesoro; e almeno finché legge, voglio che sia con me.
Se è è preoccupato dai suoi affari, differisca la lettura;
quando si avvicinerà ad essa, getti lontano da sé il peso degli
affari e la cura del patrimonio…
Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho
scritto.”
Francesco
Petrarca (Fam., XIII, 5, 23)
L’intento
di questo studio è puramente storico e, pur augurandomi di essere
utile a coloro che si propongono di dare una valutazione critica
dell’opera letteraria di Forugzamand Farroxzad, ritengo che questa
utilità possa consistere soltanto nella presentazione di fatti che
finora non sono generalmente noti, e di un quadro, che spero risulti
chiaro e veritiero, del carattere della mia protagonista e
dell’evolversi della Sua personalità.
Vi sono pochi poeti di genio e, certamente, le poetesse di genio
sono ancora più rare.
La Poesia presuppone un libero sguardo rivolto alla vita che il
costume sociale, in passato, non ha affatto consentito alle donne;
implica una profusione di potenza creatrice che le donne sembrano
aver raramente posseduto, o almeno potuto manifestare, e che, per
millenni, ha avuto libero sfogo soltanto nella maternità fisiologica.
Una sola e mirabile eccezione a questo stato di cose: Saffo.
A dispetto dei due o tre nomi intermedi che si potrebbero citare, ma
che a pensarci bene vengono fuori da soli, le altre grandi poetesse
si collocano tutte nel XIX o XX secolo. La lista, che ognuno può
rifare a suo piacimento, comprende una decina di nomi al massimo,
alcuni dei quali sono stati inseriti più per la personalità della
donna che per il genio della poetessa.
Tra queste donne di grande talento e genio, nessuna, a mio avviso,
può essere paragonata a Lei. Nessuna si colloca più in alto di
Forugzamand Farroxzad e, in ogni caso, è la sola che si innalzi
costantemente a livello dell’epopea e del mito. Non vi è nessun
Principe nella Sua vita, nessun alto funzionario, nessun appoggio,
tutto quello che realizzò fu intrapreso senza nessun aiuto e nella
solitudine.
“Io non ho mai avuto una
guida: nessuno mi ha dato un’educazione intellettuale e
spirituale; tutto quello che ho, è frutto del mio sforzo e tutto
quello che non ho, avrei potuto averlo se i traviamenti,
l’incoscienza e i vicoli ciechi della vita, non me lo avessero
impedito.”
(Lettera di Forug, Arash, 13 marzo 1968)
Una
vecchia che sgrana biascicando un rosario non ci fa avvertire più di
tanto il sentimento del sacro, la Poesia è fatta e lo era, ai tempi
in cui aveva un più netto ricordo delle sue origini magiche, di
ripetizioni quasi incantatorie di suoni e di ritmi. L’interiezione
pura e semplice, l’imprecazione o l’oscenità, spesso così usate che
non ne è neppure più percepito il senso, recano sollievo o calmano
come i mantra colui che le pronuncia. Non è della nostra epoca, in
cui la fisica ha fatto delle vibrazioni una scienza e una tecnica,
negare il potere della parola pronunciata per se stessa.
Nella stesura di questa biografia ho attinto, in gran parte, a
materiale inedito in Italia. Ho già elencato le raccolte più
importanti, insieme con l’indicazione del loro contenuto e delle
abbreviazioni usate. Le note a piè di pagina ricorrono soltanto
quando mi sono sembrate di interesse generale, i riferimenti
particolareggiati alle fonti, sono segnalati nel testo con
numerazione progressiva, in fondo al volume, unitamente a una
bibliografia scelta.
Nell’inverno del 2001, mi capitò di acquistare nella libreria Nima,
presso la Stazione Tiburtina, e nel testo originale persiano, “Iman
biyavarim be aqaz-e fasl-e sard” (Crediamo nell’inizio della
stagione fredda). A parte certe riserve, che farò in seguito, il
caso mi aveva fatto incappare in una di quelle opere che ci nutrono
per anni, e, sino a un certo punto, ci trasformano. Dell’autrice,
Forugzamand Farroxzad, ignoravo, allora, persino il nome, però bastò
che fosse una donna, del mio tempo e intenta a scrivere per
incoraggiarmi a fare lo stesso.
Quell’inverno era particolarmente bello, a Roma.
Se ne stava sospeso come un pomo dorato a un ramo, pronto da
cogliere.
Due anni dopo, l’illustre iranista Angelo Michele Piemontese, in
quella sorta di memorie della Sua vita intellettuale, “La vita nuova
nel diario romano di Forug Farroxzad”, un documento troppo poco
letto, sottolineava quanto l’Italia apparisse “poco presente in
libri di viaggio scritti da autori persiani contemporanei” e quanto
assumesse “notevole rilievo il libro del giovanile viaggio in
Italia” di Forugzamand Farroxzad.
Una donna intelligente e coraggiosa mescolava ai propri racconti di
viaggio un travelogue concernente strani confini. Questo
frammentario diario di un’anima ha ai nostri occhi un elevatissimo
valore umano, affettivo e artistico. Una sua attenta e meditata
lettura è il modo migliore per accostarsi a Forug – come mi limiterò
a chiamarLa nelle pagine a seguire – e riuscire a penetrare, più a
fondo, nel Suo universo poetico e umano. Che La si creda o meno sui
vari punti, l’Autrice ci conduce, quasi per mano, sull’orlo di
caverne di cui sentiamo perfettamente che, se osassimo esplorarle,
le scopriremmo anche in noi stessi.
Nel frattempo, avevo letto un certo numero di opere erudite persiane.
Avevo appreso cosa differenzia un mathnavi, una qasidè, un ghazal e
un roba’i.
Uno degli errori irreparabili dell’Occidente è stato probabilmente
quello di concettualizzare la complessa sostanza umana sotto la
forma antitetica Anima-Corpo, e di non uscire, poi, da questa
antitesi se non negando l’anima. Un altro errore, non meno
deplorevole, e che si fa sempre più grave, consiste nel non
immaginare opera di perfezionamento o di liberazione interiori se
non a favore dello sviluppo dell’individuo o della persona, e non
dell’annullamento di queste due nozioni a vantaggio dell’essere o di
ciò che va al di là dell’essere. Anzi per l’uomo occidentale, sembra
che perfezionamento e liberazione si contrappongano duramente l’uno
all’altra, anziché rappresentare i due aspetti di uno stesso
fenomeno.
Vi sono state epoche nella storia in cui l’Umanità sembra aver
trovato – almeno nella sua zona intellettuale – qualche soluzione
all’eterno contrasto tra Concreto e Ideale, tra pane e sogni, tra le
cose che si toccano e quelle che no.
Il Medioevo risolve, a suo modo, il problema con la Fede, a ogni
costo, nel soprannaturale. Il resto è Male e Peccato, in blocco,
senza sfumature.
L’Umanesimo trova altre soluzioni: l’Uomo centro e misura di ogni
cosa, un Universo armonioso perché redento, tutto, nella materia e
nelle creature, dal Cristo-Uomo.
Più tardi, l’Illuminismo crede di aver trovato nella Dea Ragione il
segreto dell’equilibrio.
Poi, un Positivismo molto ottimista è pronto a giurare sulla Scienza
come arma infallibile per centrare il bersaglio di una confortante
autonomia dell’Uomo, non più schiavo dell’annoso dilemma Anima e
Corpo, Ideale e Realtà.
Epoche, sembrerebbe, fatte di certezze o, almeno, illuse di
possederne una. Tra le une e le altre, ampie zone d’ombra, dense di
dilemmi, sconvolte dall’agitarsi delle coscienze in preda a tormenti
conoscitivi e etici, comunemente definiti crisi.
Il nostro tempo, quanto mai avaro di certezze, è l’esempio tipico di
uno di questi periodi di crisi. Crisi tra continenti, mondi,
individui, vittime di mille contraddizioni. Ma soprattutto crisi
riaperta clamorosamente sopra il vecchio dilemma tra Ideale e Realtà.
Di che cosa vive veramente l’Uomo di oggi?
Dove troverà la sua giusta statura?
Sino a che punto gli basta la civiltà del benessere e in che misura
invece persiste in lui un bisogno incoercibile di Infinito e di
Eternità?
Ecco le domande di grande attualità, che sembrano compendiare in sé
tutte le altre singole moderne ragioni di crisi, e sulle quali
sembra configurata la Poesia di Forug.
Una vita è ciò che si fa di essa: i pochi dettagli, che ho attinto
dalla ricca biografia di Forug – “A Lonely Woman Forugh Farrokhzad
and Her Poetry”, 1984 pp. 181 – scritta da Michael Craig Hillmann,
ci forniscono tutto e niente insieme. Altri aggiungono dei barlumi:
apprendiamo, così, che questa donna, il cui genio sembra uscito
interamente dalla tradizione popolare, leggesse molto. Nima Yushij
aveva influenzato la Sua giovinezza: sembra che, per effetto, di una
singolare osmosi, il tono e lo stile siano largamente debitori
all’austero profeta iraniano.
Forug è morta, il 14 febbraio 1967, a trentadue anni, prima di
sentire la vecchiaia, che non temeva.
“Sono
contenta che i miei capelli siano diventati bianchi e di avere
qualche ruga sulla fronte.”
(Lettera di Forug, Arash n. 13, marzo 1967)
“Sono contenta di non essere più una sognatrice e un’utopista.
Ora sto per compiere trentadue anni, questo significa aver
trascorso trentadue parti della vita. Ma in cambio, ho trovato
me stessa.”
(Lettera di Forug, Arash n. 13, marzo 1967)
Ma qualche
tempo prima aveva scritto:
“Ho paura di morire
anzitempo e di lasciare i miei lavori incompiuti.”
(Lettera di Forug, Ferdowsi, 18 agosto 1969)
e ancora:
“Sono sfiorita, i miei
capelli sono diventati bianchi e la preoccupazione del futuro mi
sta soffocando.”
(Lettera di Forug, Ferdowsi, 6 giugno)
La Sua
tragica fine sconvolgeva l’Iran, come precedentemente era avvenuto
per Sadeq Hedayat, suicida a Parigi, nel 1951.
Non lasciava eredità da spartire, aveva vissuto priva di tutto e in
povertà.
“Il denaro era l’unica
cosa cui non pensasse. Alla sua morte aveva poco denaro e un
pacchetto di sigarette.”
(Intervista a Fereydun Farroxzad, Kayhan 13 febbraio 1974)
Nella Sua casa di Tehran, come
nelle altre dimore della Sua vita errabonda, vi erano un letto per
amare, un tavolo per scrivere.
”Spesso a metà del mese
sono senza soldi e non vi è nessuno che possa aiutarmi. Ora
siamo a metà inverno e non ho ancora una stufa.”
(Lettera di Forug, Ferdowsi, 6 giugno)
Viaggiava
con un solo bagaglio: una valigia in cui teneva i Suoi scritti.
Là dentro, vi era non solo l’opera, ma il ritratto di una vita.
Poesie, appunti di viaggio, il diario intimo, lettere.
E qualche disegno.
“Tutta la mia ricchezza è
costituita dalle carte che ho raccolto durante gli anni e che
dovunque vada porto con me. Sono quelle su cui un giorno la mano
di un amico ha lasciato un’impronta e vederle mi fa ricordare
uno dei giorni perduti della mia vita, rendendomi viva ogni
volta.”
(Memoriale del viaggio in Europa, Ferdowsi, anno IX)
Nel 1956,
aveva soggiornato in Italia, singolarmente portata dal destino in
questo paese, dove aveva apprezzato gli italiani. Aveva tenuto
regolarmente un diario, grazie al quale possiamo avere una visione
abbastanza precisa di quello che è un periodo di particolare
interesse. Possiamo immaginarci una ragazza esile e bruna, leggere e
scrivere in una stanza di (…).
Ovunque alloggiasse, costruiva intorno a Sé una fortezza che non
poteva essere facilmente espugnata. Questa Sua riluttanza a lasciare
i modesti agi, per Lei così importanti, del Suo posto di lavoro è
testimoniata più di una volta nel Suo diario.
Forug ha intrecciato lo scrivere alla vita, facendone un punto fermo,
a giustificazione di quest’ultima.
Nell’ultimo periodo della Sua vita, Forug ha spinto sino
all’ossessione l’amore per la parola scritta. Stremata dalle molte
vicissitudini, malata, debole, ha cercato di riunire le Sue opere.
Conservava tutto, come per raccogliere la testimonianza di Se stessa,
per proteggersi con la presenza reale di quelle pagine dalla
solitudine di cui era preda.
Oggi, quarant’anni dopo la Sua morte, quegli scritti raccontano
trentadue anni dell’esistenza di una donna, anni pieni di grandi
successi pubblici, numerosi come gli smacchi personali e i dolori
privati. Nell’abbondanza e nella fertilità che li contraddistinguono,
questi documenti appartengono alla letteratura come al vivere.
Pagina dopo pagina, ci troviamo a incrociare piccoli drammi di
quotidiane vicende, miniature di amici colti nelle loro debolezze,
brandelli di pettegolezzi, seri a volte, più spesso profani,
istantanee policrome, come in una conferenza su viaggi esotici, e
piccole confidenze sul mestiere letterario. A volte, i velati
avvertimenti su un affetto ferito o un orgoglio piccato o, parimenti,
le minute benedizioni dell’appagamento amoroso. Ma sotto la
superficiale schiuma delle parole, si segnala occasionalmente la
strana alchimia dell’amore frammisto all’incertezza, e dello slancio
unito all’imbarazzo. Sono questi i geroglifici dell’emozione di cui
queste pagine recano l’impronta.
E noi qui La osserveremo, come a Lei piaceva vedersi, scrivere e
vivere.
Per quanti la conobbero, la Poesia di Forug commenta semplicemente
il poema della Sua vita. Ispirata alla realtà, resta a Lei inferiore,
non è che la cenere di un fuoco meraviglioso. A coloro che tutto
ignorano di Lei, vorrei far sentire il dolce calice di questa cenere.
Scartando tutto ciò che è solo involucro, apparenza, superficie,
vorrei giungere subito al cuore di questa rosa, al fondo di questo
dolce calice.
Queste pagine sono un montaggio. Per scrupolo di autenticità ho
fatto monologare il più possibile Forug, attingendo ai Suoi scritti.
Anche nei punti in cui non mi sono servita di virgolette, ho spesso
riassunto le annotazioni della poetessa, troppo prolisse per essere
riportate tali e quali. Le frasi di mia creazione sono tutt’al più
dei riempitivi: ho cercato semmai di imprimere a esse qualcosa del
suo ritmo personale. Certo vedo i difetti di un procedimento che
concentra in un solo giorno sentimenti e sensazioni che nella realtà
occuparono diversi anni di vita. Il fatto è che quei sentimenti e
quelle emozioni sono troppo costanti in ciò che ci rimane degli
scritti di Forug, per non essere stati l’assillo di questa donna
quasi morbosamente incline alla riflessione.
Mi rendo conto della stranezza di questa operazione quasi
negromantica.
Tali sono i giochi di specchi del tempo.
Mi è parso che una scelta di testi narrativi – diari, scritti
personali, articoli di giornali –, attinti da tutto l’arco della Sua
produzione e scanditi dal racconto della Sua vita, avrebbe permesso
di conoscerLa meglio.
Ho ricostruito, anno dopo anno, l’attività letteraria di Forug. Un
lungo viaggio attraverso la passione amorosa, attraverso miti e
personaggi che, in qualche modo, hanno rappresentato la sintesi, il
modello, il paravento di un sentimento che, per dirla con Kafka,
“aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita verso tutte le altezze
e tutte le profondità” ovvero – sono parole di Giacomo Leopardi –
“di nostra vita ultimo inganno”.
Dalla Sua morte, generazione dopo generazione, ci si interroga e si
discute sui silenzi di un’esistenza troppo breve, sulle Sue
contraddizioni, che Forug coltivava con l’eccesso che Le era proprio,
si cerca nella straordinaria forza del Suo carattere e della Sua
vita il meglio di noi stessi, si rifiuta quanto ci minaccia, si
resiste al mito e lo si alimenta con la nostra mentalità di vivi un
po’ antropofagi e molto barbari.
Ha scritto senza posa, con un amore che aumentava ogni giorno,
perché proprio d’amore si trattava: apprese a conoscere e a
raccontare la Sua terra, la Sua gente. È vissuta con la matita in
mano, annotando quello che vedeva, pensava e provava,
instancabilmente, certo con una predisposizione innata, ma con
un’abilità conquistata grazie alla Sua ostinazione e al Suo rigore
etico e letterario, al Suo amore per la scrittura.
Forug non incontrava ostacoli, dubbi, conflitti, ripensamenti.
“Riusciva a memorizzare i
suoi versi, non appena li componeva direttamente sul foglio,
senza correggerli.”
(Tusi Ha’eri, settimanale Bamshad, terza settimana 1968)
Rivoluzionaria in politica, Forug non lo è di meno in letteratura. I
Suoi versi esprimono il sentimento e l’anima del popolo iraniano,
così come riflettono gli aspetti quotidiani dell’amore e della
politica.
“Credo di essere un poeta
in ogni momento della mia vita. Essere un poeta significa essere
umano. Conosco alcuni poeti il cui comportamento quotidiano non
ha nulla a che fare con la loro Poesia. In breve, sono poeti
solo quando scrivono poesie. Quando hanno terminato di scrivere,
tornano a essere nuovamente avidi, condiscendenti, tirannici,
miopi, meschini. Dunque, io non credo alle loro poesie. Io
apprezzo l’onestà nella vita e quando li scopro nelle loro
poesie e nei loro saggi levare pugni e grida ne sono disgustata
e dubito della loro veridicità. E penso tra me: “Forse è solo
per un piatto di riso che gridano.”
(Conversazione con Forug, Tehran: Morvarid, 1977)
In
polemica con gli scrittori di sinistra, com’era abbastanza naturale,
la critica di Forug, particolarmente aspra e, a mio parere, giusta,
dava sfogo alla Sua irritazione nei confronti di parte della Poesia
degli intellettuali comunisti. Il verdetto definitivo di una
scrittrice consapevole dei problemi sociali. A Forug non sfuggiva
quanto l’Intellighenzia iraniana, nel suo sviluppo, fosse
condizionata dalla struttura di classe, né Le sfuggivano le matrici
essenzialmente borghesi dello stesso movimento di sinistra degli
anni Sessanta. Di conseguenza, era convinta che, nonostante la loro
posizione ideologica, i giovani scrittori comunisti del Suo tempo
non riuscissero a superare le barriere di classe; non solo, ma che,
a causa della loro estrazione sociale fossero condannati a una
visione molto confusa della realtà, e sempre lo sarebbero stati se
non fossero riusciti a creare una società senza classi. Ciò che
differenziava Forug dalla maggior parte dei giovani di sinistra era
il Suo riconoscimento franco e esplicito dell’importanza della
struttura di classe nella letteratura. Mentre altri tentavano di
scavalcare le barriere di classe, o addirittura di negarne
l’esistenza, Lei le riconosceva apertamente e, implicitamente,
riconosceva, quindi, la propria posizione di isolamento all’interno
di una società divisa. Certo, non riteneva che questa fosse una
situazione desiderabile, tuttavia neppure pensava che tale
situazione potesse essere modificata ignorandone l’esistenza. E qui
Forug si distaccava non soltanto dalla sinistra, ma anche dalla
destra.
“Quando torno a casa e
resto sola, improvvisamente sento di aver trascorso la giornata
a vagare, smarrita tra una miriade di cose che non sono mie e
non avranno durata. Tra questa gente tanto diversa, mi sento
così sola che, a volte, mi sento lacerare la gola dal rancore.”
(Lettera di Forug, Arash, 13 febbraio 1966)
Si
proclama adepta di Nima Yushij – takallos di Ali Esfandyari (Yush,
Mazandaran 1897-1960) – e denuncia gli idoli che servono da alibi,
ai Suoi occhi, all’imborghesimento delle anime e all’asservimento
dell’arte.
“(Nima Yushij) È stato la
mia guida, ma io sono stata l’artefice di me stessa. Ho sempre
fatto affidamento sulle mie sperimentazioni. Ho scoperto come
Nima riusciva a arricchire i suoi nuovi linguaggio e forma. Se
non lo avessi scoperto, non sarei giunta a niente. Sarei
divenuta un’imitatrice senza coscienza. Avrei fatto il mio
viaggio, vale a dire, avrei vissuto la mia vita.”
(Intervista a Forug, Darash)
L’innovazione di Forug rispetto a quella che si definisce, in modo
sempre un pò vago, la tradizione è un fatto acquisito, tuttavia,
l’apporto di questo nuovo sguardo, lungi dal significare la rottura
con una tradizione superata, mira a vivificare uno stile perduto.
Una scrittura che preferisce l’economia dei mezzi e la concisione
folgorante alla retorica verbosa e al pathos dei buoni sentimenti.
“La Poesia è per me come
una finestra e ogni volta che io le vado incontro, si apre da sé.
Io mi siedo là: guardo, canto, grido, piango. Mi confondo con
l’immagine degli alberi e sono consapevole che qualcuno mi
ascolta, qualcuno che esisterà tra duecento anni o che esisteva
già trecento anni fa. Non vi è differenza. È un modo di
comunicare con l’esistenza, con la totalità dell’essere. È un
privilegio di cui il poeta, componendo versi, può beneficiare:
anch’io esisto o esistevo. Altrimenti come si potrebbe
affermarlo? Nella Poesia, io non cerco nulla. È così che posso,
quasi per caso, trovarvi quanto vi è di nuovo in me.”
(Conversazione con Forug, Tehran: Morvarid, 1977)
Forug
resta viva, non perché i versi delle Sue poesie sono scelti e
saccheggiati dagli autori di antologie o di manuali universitari, ma
perché, contrariamente alla maggior parte dei Suoi contemporanei,
Lei non ha barato, Lei non ha mancato le Sue lacerazioni, i Suoi
dubbi, le Sue piccinerie, i Suoi rancori sotto gli orpelli della
bella letteratura.
Se gli scritti che ha lasciato ci toccano, tutti i Suoi scritti, non
soltanto le Sue poesie, ma anche il più piccolo frammento, anche le
pagine cancellate dei Suoi brogliacci, è perché restano un bruciante
fuoco di tensioni, restituiscono a un’esistenza frammentata una
nuova coerenza, una continuità, una certa pace.
Infanzia anticonvenzionale e anarchica, Forug ha vissuto sin da
piccola libera da ogni disciplina e costrizione sociale: l’unica
autorità era il padre.
“Era molto freddo e duro,
un vero soldato dal volto severo o, meglio, sempre celato da una
maschera che incuteva timore. Ricordo che appena sentivamo il
rumore dei suoi stivali, tutti lasciavamo quello che stavamo
facendo e ci nascondevamo; ma questo padre così severo, i cui
soli passi ci facevano sussultare, ogni tanto tornava se stesso
e rivelava il suo vero volto. Allora ci abbracciava teneramente
e calde lacrime sgorgavano dai suoi occhi.”
(Intervista a Puran Farrokhzad, Kayhan, 10 febbraio 1971)
Il
colonnello Mohammad Baqer Farroxzad sapeva essere un padre
incantevole. Raccontava storie, talvolta recitava poesie e stimolava,
poi, i figli a discutere di quello che avevano ascoltato.
“Se ,oggi, gli altri mi
considerano testarda e sicura di me lo devo al metodo educativo
di mio padre.”
(Memoriale del viaggio in Europa, Ferdowsi, anno IX)
La madre, Touran Vaziri-Tabar,
dolce e sottomessa, amorosa e attenta, viveva soprattutto per suo
marito e era venerata dai figli.
“La mamma era una donna
perfetta, infantile e credulona, incapace di conoscere il male,
fiduciosa del mondo e degli uomini. Una donna legata a tutte le
tradizioni, a tutte le convenzioni…”
(Intervista a Puran Farroxzad)
Certo,
Forug aveva sofferto dell’apatia materna, della tirannia e delle
velleità paterne e, forse, un pò di invidia l’aveva consumata
vedendo i suoi fratelli andare all’Università, mentre Lei aveva
dovuto restarsene a casa. Le donne avevano accesso allo studio, ma
dovevano subire ancora molte discriminazioni nelle Università, che
continuavano a essere, in gran parte, territorio riservato all’altro
sesso. La sciatteria della casa aveva dovuto pesarLe, ma quel posto
chiuso e disordinato, ingombro di libri e di carte, un po’ sporco e
letargico, era la Sua tana. Vi coltivava un’anima persiana e
romantica.
Fu, certamente, una ragazza fortunata.
E, fu quello il periodo più felice di un’infanzia felice.
Ma, come tutti i paradisi in terra, anche questo era insidiato. Sin
dall’inizio, la vita di Forug fu minacciata dalla depressione, dalla
morte, dalle disgrazie.
“Ogni mese, due o tre
volte cadeva in crisi depressive. In quei giorni fuggiva da
tutti e da tutto, si chiudeva in stanza e piangeva. “
( Puran Farroxzad, settimanale Bamshad, ottobre 1968)
Sognava di
grandi spazi e là, nella Sua prima adolescenza, trovava il Suo
motto:
“Ibo singulariter donec
transeam.”
“Me ne andrò solitaria sino alla morte.”
Non ci
volle molto alla ragazza precoce per scoprire che se non erano
sincronizzati il sentimento e l’acccadere, lo erano il sentimento e
la fantasia.
E fu con una tale scoperta che Le si aprì il mondo della futura
poetessa.
L’apprendimento delle attività femminili non costituiva per Forug un
compenso adeguato.
Se fosse riuscita a insegnare a Se stessa come fondere il sentimento
con la fantasia avrebbe creato un Suo proprio mondo, una repubblica
spaziosa abitata soltanto da coloro che Lei aveva scelto di porvi,
un luogo dove l’accadere non avrebbe creato disturbo, un regno
inventato, completamente sotto controllo, dove la pena e il dubbio
non avrebbero avuto dimora.
Come ogni tentativo di produrre armonia, per quanto artificiale, nel
caos della propria esistenza, anche questo avrebbe tuttavia generato
un conflitto dagli esiti sfortunati. Forug deve essersi resa conto
che l’essere amata e l’essere libera non si possono coniugare.
L’indipendenza richiede distanza emotiva dagli altri, proprio come
l’affetto esige sottomissione e acquiescenza.
Fu proprio questa combinazione a causarLe tante pene di cuore;
eppure, nonostante il tumulto provocato dai disordini amorosi, Forug
non poteva esistere senza amore o, più precisamente, senza l’idea
dell’amore.
“Qualche volta penso che
per me sia possibile lasciare questa vita in un solo minuto,
perché non sono legata a nulla. Sono una persona sradicata. È
solo l’amore che mi trattiene, ma…”
(Ferdowsi, 18 agosto 1969)
La preferenza di Forug per un
glorioso fallimento rispetto a uno sbiadito successo assume un
significato più ampio, in questa luce distante.
A questo riguardo, sarebbe opportuno dissipare una confusione troppo
a lungo mantenuta dagli eccessi dello strutturalismo. Se è evidente
che, nello studio di un autore, la conoscenza della vita non
sostituirà mai la conoscenza dell’opera, non significa che ci si
debba privare di uno strumento prezioso alla comprensione dello
stesso processo creativo. La forza di un’opera è legata, non
soltanto alle determinazioni che hanno pesato sulla sua elaborazione,
ma al posto dell’opera nella vita, della vita nel secolo,
all’apporto dell’opera, al flusso mobile e mutevole delle idee e
delle forme, alla funzione dello scrittore nella società.
“In verità, la Poesia che
ignori l’ambiente e le condizioni in cui nasce e si sviluppa,
non può mai essere vera Poesia.”
(Conversazione con Forug, Tehran: Morvarid, 1977)
Ma prima
di affrontare l’analisi dei testi in quanto tali, importa collocarli
nel loro quadro storico e biografico.
Grido del cuore, difesa appassionata di una poetessa ritenuta
fondamentale, queste pagine riposano sullo studio spinto di numerose
poesie di Forug Farroxzad. Si presentano, dunque, come la prima
edizione italiana con la quale è possibile conoscere e apprezzare in
un unico libro in modo organico e sistematico la Sua produzione
poetica, anche tramite il testo persiano che è riprodotto a fronte
della relativa traduzione. Il risultato finale evidenzia la
preziosità dell’iniziativa rivolta a tutti coloro che sentono la
necessità di entrare in questa opera, sino a oggi, soltanto sfiorata.
Forug è tra i primi a intravedere nella società del Suo tempo le
tare destinate a proliferare e a prosperare, vere malattie
dell’anima che rischiano di portare alla morte l’uomo come essere
pensante. È difficile una maggiore lucidità verso un terrificante
egualitarismo che, sotto la spinta di un utilitarismo nauseante,
induce, ai suoi occhi, il livellamento di tutti i valori estetici e
culturali.
In un paese in cui non vi è miseria, è naturale non essere snob.
Parimenti avviene laddove tutti sono egualmente poveri. Ma dove le
ineguaglianze sono tali che nessun ricco può osservarle senza
avvertire nell’intimo un sentimento di disagio, questi preferisce
non guardare affatto e dimenticare che accanto al suo esiste un
altro mondo.
I poeti hanno un sesto senso che rende loro chiaro l’avvenire.
Forug aveva molto presto intuito che, un giorno, sotto la pressione
dell’americanismo, la parola Democrazia avrebbe perduto il suo
significato.
La Democrazia cessa di essere democratica quando diventa forte.
Sapeva quanto fosse vano lottare contro un’abiezione chiamata, un
giorno, a divenire universale e ne aveva dedotto che non vi era
altra strada per la Poesia che affrontare questa abiezione per
attingervi gli elementi di una nuova bellezza.
In ogni caso, Forug ci ha lasciato, grazie al Suo diabolico coraggio,
al Suo incurabile ottimismo, grazie alla Sua fede nell’arte, a
dispetto di tutto, un ammirevole esempio di resistenza a
un’ignominia sociale che non doveva cessare di espandersi e che,
oggi, esibisce sotto i nostri occhi le sue tristi turpitudini.
Strano personaggio questa poetessa ribelle, che respirava la libertà
da tutti i pori della Sua pelle. Lei che, partendo dalla
rivendicazione della Sua libertà, in quanto donna, è giunta alla
necessità della liberazione sociale.
“Molti trovano rifugio
negli altri, cercando di compensare le proprie carenze, ma non
vi riescono mai del tutto, altrimenti questo rapporto non
sarebbe da solo la più grande poesia del mondo e della vita?”
(Conversazione con Forug, Tehran: Morvarid, 1977)
Forug era
nella condizione di sentire, nella Sua carne, l’oppressione e
l’avvilimento che il matrimonio può arrecare alle donne. Il
tentativo era stato fatto e, inutile dirsi, era fallito.
La Sua salute peggiorò quasi subito. Forug perse la fede e si dedicò
con diligenza a cercarne un’altra, finché, dopo numerosi tentativi,
trovò un asilo spirituale a Lei congeniale nella Poesia.
“ Il rapporto tra due
esseri non può mai essere perfetto o completo. Ma la Poesia è
per me un’amica con la quale poter parlare in libertà e in
intimità. È un’amica che mi completa.”
(Conversazione con Forug, Tehran: Morvarid, 1977)
Nel
decennio che seguì alla Sua abiura, Forug scoprì oltre alla propria
vocazione di poeta e di pittore anche quella di regista. Aveva,
insomma, un temperamento artistico.
“Se io ho scritto poesie per tutta la vita, questo non significa che
la Poesia sia l’unico mezzo di espressione. A me piace il cinema. Se
potessi lavorerei in ogni campo. Se non fosse esistita la Poesia
avrei recitato in Teatro. Se non fosse esistito il Teatro, avrei
fatto del Cinema. Se perseguo la strada dell’Arte è perché ho
qualcosa da dire.”
Personalmente ritengo che Lei avrebbe preferito essere ricordata
come donna.
In una certa misura, le Sue opinioni, osteggiate da una moralità
angusta e intollerante, non Le impedirono di avere una visione del
mondo essenzialmente onesta , responsabile e sana.
Che peccato che un incidente d’auto abbia interrotto il Suo volo!
Ricordati del volo,
L’uccello è mortale.
Così è
partita a soli trentadue anni.
“Poi la neve, una candida
neve bianca, iniziò a cadere dal cielo. Forug, tutta di bianco,
fu adagiata nella tomba. La neve bianca coprì la tomba e la
terra tutt’intorno.”
(Parviz Lushani, Bianco e nero, febbraio 1967)
Forse la verità furono quelle
due mani, quelle due giovani mani
Che furono sepolte sotto la continua caduta della neve.
Crediamo
Crediamo nell’inizio della stagione fredda
Crediamo nelle rovine dei giardini della fantasia
Nelle capovolte e disoccupate falci
E nei semi imprigionati.
Guarda come sta nevicando…
È nata in
inverno, ha vissuto essenzialmente in inverno per partire, infine,
in inverno.
E questo sono io:
Una donna sola,
Sulla soglia di una stagione fredda
All’inizio della percezione dell’esistenza inquinata della terra
E della triste e semplice disperazione del cielo
E della debolezza di queste mani di cemento…
Non a caso
aveva freddo.
Ho freddo
Ho freddo, si direbbe che non mi riscalderò mai…
Senza
alcuna tema, si può affermare che l’avvenire appartiene alle donne
della Sua tempra.
TOP cilica
qui per formato
di PDF